Riflessione sulla pubblicità

In questi giorni sto leggendo Communication Mix, di Maria Angela Polesana.
L’autrice, nel primo capitolo, dedicato alla pubblicità, riporta una considerazione che ho ritenuto essere interessante (e ironica) e che mi piace condividere.

Alcuni generi editoriali, che pure si caratterizzino per raggiungere lettori assai vasi come, per esempio, quelli con un’impronta più popolare, in cui domina il gossip  o che hanno un contenuto scandalistico, sono disertati dagli inserzionisti pubblicitari. Il motivo è che, a torto o a ragione, si ritiene che la presenta in tali contesti potrebbe ledere il prestigio e l’autorevolezza della marca o che, comunque, si potrebbe riverberare sulla stessa un alone di negatività indotto dai contenuti, ritenuti di bassa qualità, di quelle testate.

Ebbene questa sensibilità è del tutto assente nei confronti di quel metagenere, la cosiddetta Tv spazzatura, che si va, ahimè, “allargando” e che risulta affollato di pubblicità. Quasi che, come afferma McLuhan, il mezzo divenisse messaggio e l’autorevolezza della televisione fosse sufficiente, da sola, a promuovere i contenuti. Una sorta quindi di non olet che può trovare un alibi solo nelle dimensioni imponenti dell’audience.

Il temuto effetto di discredito sulla marca, generato dai contenuti dei media stampa sopra ricordati, non sembra quindi, inspiegabilmente, estensibile anche a quei programmi Tv che, solo eufemisticamente, potremmo definire scadenti.

Una ottima presa di coscienza.
Personalmente non avevo mai riflettuto su questo aspetto (forse perché non ho mai fatto spot? ;-))

Per l’agilità del team

I cambiamenti sono sempre più rapidi. Tempo di decidere qualcosa ed è già ora di rivedere tutto e forse abbandonare del tutto quella idea e le sue riflessioni.

Allora come si fa a seguire un progetto più lungo di un giorno, quando tutto continua a mutare?

La risposta è sapersi adattare o meglio essere “agile”.

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L’economia del fallimento

Nella nostra cultura il “fallimento” è uno stigma, la lettera scarlatta che ci si trascina dietro e chiude le porte. Anche giuridicamente parlando.

Eppure, se le statistiche dicono che il 70% di (nuove) aziende non decolla o lo fa ma poi annaspa e chiude, non ci si dovrebbe sentire così “fuori”. Dispiaciuti, certo, ma dentro le statistiche e dalla parte delle probabilità più elevate.

Niente di eccezionale, non vuol dire che si è stati pessimi o incapaci. Solo che è normale che vada così e che la prossima volta andrà meglio. Nel mondo anglosassone c’è un concetto molto diverso del fallimento che è, appunto, “normale”, una fase comune di un processo produttivo. Come l’acqua, diciamo così.

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